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L’ipertono e la sofferenza delle donne

Nella mia modesta ma devota esperienza come uroriabilitatrice ho dovuto fare i conti con una tendenza alla quale non ero stata preparata, tendenza che vuole essere il cuore dei miei sproloqui di oggi. Non è possibile trascrivere in due righe riflessioni così care, sicuramente non è possibile per me che da sempre mi perdo in lunghi voli pindarici, quindi per arrivarci devo provare a mostrarvi quale viaggio mi ha condotta alle riflessioni che seguiranno.

Ho passato gli anni dell’università con la sensazione che le lezioni sul pavimento pelvico fossero qualcosa di fintamente importante, che appassionava esclusivamente quella stramba ostetrica-strega che ce ne parlava con rispetto e rigore in preparazione all’esame da pochi crediti. Mi sembrava che il tema della salute perineale fosse qualcosa di troppo complicato perché ci si ponesse domande inutili, eppure a me aveva agganciata e lasciata lì sospesa. Non c’era tempo però per ascoltarsi, c’era da sgobbare molto e portare al mondo vite. E ci mancherebbe!

Oggi quel ricordo mi delude e mi chiedo se fosse una sensazione solo mia, che tendo un po’al cinismo, o se davvero i passi da fare verso la consapevolezza accademica sul tema siano ancora così tanti.
In linea con quei modi da ribelle della docente che per prima mi aveva mostrato un’ostetricia diversa, ho scelto di andare in contro tendenza, senza alcun merito superiore a quello delle mie colleghe, ma con la speranza di poter tornare verso il messaggio che mi aveva sussurrato il cuore il giorno in cui presi la grande decisione di iscrivermi all’università: “Stai vicina alle donne Giulia, parla con loro, prenditene cura”. Occuparmi esclusivamente di gravidanze e parti mi sembrava riduttivo e ingiusto e silenziosamente per un po’ho guardato a quella parte del mio mondo schifandolo.

Se davvero c’era di più nella mia professione, potevo essere libera di scegliere, no?
Ero coraggiosa abbastanza per farlo? La risposta non la so neanche ora, ma la domanda fu sufficiente a rendermi stabile nell’unica cosa in cui credevo con certezza: “Non tenterò nessun concorso, non so come farò ma proverò a ritagliarmi la mia fetta di mondo, fedele al mio sogno.”
Da quel momento ho fatto tanti passi, tanti esperimenti, tanti buchi nell’acqua e guadagnato tante soddisfazioni. Il mio curriculum ha cominciato a riempirsi di corsi di specializzazione e la rubrica del mio telefono di contatti di colleghi  e professionisti speciali.
Malgrado questo, malgrado le ore di lezione, malgrado i libri di testo, nulla mai mi aveva preparata a qualcosa che solo la pratica mi ha mostrato con destabilizzante chiarezza.
Che tutto questo gran parlare di ipotonicità pelvica, di muscoli deboli e lassi, sottili, affannati fosse sì vitale, ma almeno quanto l’altra faccia della medaglia chiamata riabilitazione: l’ipertono pelvico.
Una condizione per la quale i muscoli del pavimento pelvico sono costantemente contratti e rigidi, un particolare stato della muscolatura che porta inevitabilmente con sé una ricca lista di disfunzioni e patologie che nascono e si alimentano dalla condizione stessa.
Nessuno mi aveva preparata a dovermene occupare così assiduamente, nessuno mi aveva detto che avrebbe riguardato 80% delle mie pazienti.
Perché attualmente di questo si tratta.

Una mia amica e la mia mentore dicono che sono io ad attrarle, che le donne che si presentano al mio ambulatorio non arrivano mai a caso, e io ci credo, ma credo anche che la condizione d’ipertono riguardi molte e molte più persone di quanto non si parli.
Ho cominciato ad interrogarmi e, mi scuso, ma tutt’ora non ho più che queste righe, molti pensieri e poche risposte. Quello che so dirvi con certezza è che il comune denominatore della grande maggioranza di questi miei casi è sempre una profonda e antica sofferenza.
Si sdraiano sul mio lettino ragazze e donne, ognuna alle prese con il proprio mostro interiore, tutte segretamente unite dal dolore e dalla rigidità nella pelvi. Una porta che si chiude e prova a difendere la femminilità con gli strumenti che possiede.

Da tempo medicine più o meno antiche ci spiegano le forti connessioni che il corpo ha con i nostri sentimenti e i nostri vissuti e noi spesso non vogliamo ascoltare. Io per prima sono spesso stata vittima di questo processo.
Eppure noi donne ci portiamo lì tra le gambe il segno indelebile della ribellione del corpo, la prova tangibile che per quanto lontano da te stessa tu voglia guardare c’è sempre quella cosa con cui presto o tardi dovrai fare i conti.
Ho riscontrato anche una sensibilità speciale in queste pazienti, una fragilità fertile, più forte del peso che il corpo non riesce più a sostenere. Donne che possono sentire “un po’di più”.

È proprio a quella sensibilità che mi rivolgo quando lavoro con loro. Ed è sempre quella che quasi ogni volta le salva. La capacità di allentare la presa e lasciarsi attraversare, davvero e profondamente.
In alcuni casi ho perso pazienti quando ho consigliato di cercare un aiuto che le facesse sbirciare più in profondità l’origine del dolore, in altri casi ho ricevuto abbracci, messaggi di ringraziamento dopo mesi, piccoli pezzi d’arte fatti a mano, recensioni e persino tagliatelle di pasta fresca consegnate direttamente in ambulatorio. Ognuno è riconoscente nel modo in cui sa esprimere meglio l’amore.  Ecco, anche la mia gratitudine è immensa, mi trovo oggi dove sei anni fa non avrei neanche osato immaginarmi, ma più di tutto sono grata per l’insegnamento che quotidianamente ricevo proprio da chi mi chiede aiuto, perché ogni storia che si è affacciata alla mia porta ha portato nuove consapevolezze e nuovi modi di lavorare.

Con queste poche righe spero di coltivare sempre più messaggi di ringraziamento, racconti di successi, specchio di difficoltà risolte, ed educare ancora una volta chi legge all’importanza dell’ascolto di questa parte del nostro corpo, della nostra femminilità, che può essere capace di gioire, accogliere, aprirsi, tanto quanto a volte si trova a farci sentire la sua voce.

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